Quando le Donne Avevano la Clava

di Lorena Carrara

Dicembre 2020

Woman waving a carpet on a manual loom in India

Quand’ero bambina della preistoria si sapeva poco e niente: qualche idea vaga e abbozzata sull’evoluzione, tre paginette sul sussidiario, due concetti raffazzonati sulla parentela con la scimmia e sui primi strumenti litici, e tant’è. Quel poco bastava a farci ritenere soddisfatti. Ricordo un film (erotico secondo i criteri dell’epoca) che vidi da bambina (allora non esisteva la fascia protetta), quand’ero incapace di distinguere l’invenzione dalla verosimiglianza della ricostruzione. Si intitolava Quando le donne avevano la coda e corrispondeva pienamente all’idea che mi ero già fatta di quell’oscuro periodo: femmine deboli che necessitano della protezione maschile e attivano strategie di seduzione per ottenere ciò di cui hanno bisogno; maschi che passano il tempo a catturare le loro prede – che siano per la riproduzione o per nutrirsi fa poca differenza – guerrieri potenti armati di clava, nonché di una evidente superiorità fisica e cognitiva (fatta eccezione per quando cadevano succubi delle malie donnesche, quelle sì, inalterate nei millenni).

Oggi mi risulta ancora strano immaginare le donne della preistoria come cacciatrici forti e robuste, dotate di un corpo resistente e muscoloso, paragonabile a quello delle contemporanee lanciatrici di peso, capaci di lunghe marce e di appostamenti estenuanti o, perfino, abili nel produrre armi e nell’utilizzarle. È chiaro che in qualche modo ho imparato a interpretare la storia dell’umanità secondo paradigmi che non ho ancora saputo decostruire e superare.

Nei libri di scuola e nell’immaginario occidentale l’uomo preistorico campeggia indiscusso e sessuato: dominatore, cacciatore, sciamano, scopritore del fuoco, autore e creatore delle prime forme d’arte, precursore del pensiero speculativo e rapito dall’afflato religioso. Di solito, accompagnano il testo un approfondimento sulle attività femminili o una bella immagine di apparato in cui le donne vengono raffigurate rintanate in una grotta con i piccoli, in trepidante attesa del ritorno del cacciatore/guerriero o, più in là nel tempo, rinchiuse al sicuro entro i confini di un villaggio, mentre si occupano di preparare tinture, intrecciare pagliericci e cucinare erbe raccolte nei dintorni.

Le occupazioni della compagna di Homo (anche per assonanza, nelle lingue neolatine il termine scientifico evoca una sola metà del cielo)sono rappresentate come spigolature, pratiche secondarie e di contorno, rispetto all’indiscussa centralità di quelle maschili.

Chi pensa che io stia esagerando, verifichi personalmente inserendo la voce Evoluzione umana su un qualsiasi motore di ricerca e lanci la ricerca per immagini. Basteranno pochi secondi per vedersi dispiegare di fronte agli occhi una pletora di figure di maschio: che dipinge, che caccia, che costruisce armi, che inventa utensili, che si erge trionfante in posizione eretta a partire dall’instabile bipedismo dell’antenato australopitecino. Habilis, Erectus, Neanderthal o Sapiens non conta granché, sempre maschio rimane. Stando alle apparenze e all’iconografia, le donne non si sono evolute, non hanno alzato lo sguardo verso l’orizzonte infinito, non hanno partecipato al trionfante cammino dell’umanità, non hanno arricchito la civiltà con trovate e colpi di genio, non sono capaci di potenza creativa. Restano confinate nella sfera domestica, condannate alla funzione riproduttiva e di cura, implicita e scontata, e di quella si dovrebbero accontentare.

È incomprensibile come un periodo lungo e misterioso quale la preistoria – a cui è dedicato addirittura un intero quadrimestre alla scuola primaria (rimando alle Indicazioni Nazionali) – un ambito di indagine in continuo divenire grazie al progresso nei metodi di analisi dei reperti e ad innovativi progetti interdisciplinari, appaia ai nostri occhi come immutabile, quasi scolpito nella pietra che gli ha dato il nome.

Di recente, però, intrecciando fili in rete, mi sono imbattuta nell’ultimo lavoro di Marylène Patou-Mathis, L’homme préhistorique était aussi une femme

Marylène Patou-Mathis – L'homme préhistorique est aussi une femme

La tesi da cui prende le mosse Patou-Mathis è che lo sguardo adottato nello studio delle origini dell’umanità e la prospettiva con cui viene raccontata e spiegata (dalla primaria all’università), sia incontestabilmente e ineluttabilmente maschile. E anche se fosse – potreste domandare – perché dovrebbe essere un problema? Il sesso di chi fa ricerca o la trasmette ai non addetti ai lavori non dovrebbe inficiarne i risultati. E invece non è esattamente così. Patou-Mathis dimostra che la rappresentazione della preistoria e la sua veicolazione all’immaginario popolare è stata fortemente condizionata dalla società in cui lo studio scientifico e metodico della preistoria ha preso avvio: un Ottocento eurocentrico e patriarcale, intriso di stereotipi sessisti e borghesi, un Ottocento in cui, oltretutto, lo studio a livello universitario era pressoché precluso alle donne. La cultura era fatta da uomini, fruita da uomini, praticata con occhi di uomini.

Nessuna prospettiva può restituire la realtà nella sua oggettività, lo sanno bene ricercatori e fotografi, e le scienze dure e pure hanno già da tempo concordato sul fatto che non possa darsi una rappresentazione che prescinda dal complesso rapporto tra osservatore e osservato. Paradossalmente però sono proprio le scienze umane le più recalcitranti ad ammetterlo, e l’errore in cui tutti noi incappiamo, perché siamo stati abituati a farlo, è ritenere che uno sguardo scientifico sia neutro per definizione. Pronti a bollare come parziale e settoriale la prospettiva femminista, non mostriamo altrettanta risolutezza nel valutare quella maschile, considerata indubitabilmente universale.

Patou-Mathis dà una potente spallata a questo modo di vedere le cose, reintegrando il ruolo paritetico delle donne nella storia dell’evoluzione umana e restituendo loro una funzione che è stata rimossa e negata per un secolo e mezzo. Dati alla mano, mostra che molti oggetti preistorici erano polisemici e non necessariamente legati alla sfera maschile nell’utilizzo e nell’attribuzione sociale. La paleoantropologa si spinge poi oltre, restituendo alle donne il ruolo di artiste che con ogni probabilità hanno rivestito al pari dei compagni maschi (chi dice che non fossero femminili le mani di dimensioni più piccole raffigurate nella grotta di Lascaux?) – sciamane (non potrebbero anche le donne essersi insinuate nel ventre della terra a scopo rituale, a maggior ragione se consideriamo che la grotta è simbolo universalmente femminile?) e, ovviamente, di creatrici e artefici (non potrebbero le artigiane aver prodotto strumenti litici, al pari dei loro compagni?). È inoltre molto probabile che alcuni manufatti di uso e fattura più specificamente femminile (fasce per neonati, reti per la raccolta di molluschi ed erbe, ceste e fasce per il trasporto dei neonati), essendo prodotti con materiali altamente degradabili, abbiano condannato all’oblio le donne e i loro compiti più specifici. Per un periodo lunghissimo e privo di fonti scritte com’è la preistoria, i reperti, quando si trovano, hanno un carattere frammentario e sporadico, ma “avendo in carico l’allevamento dei bambini, si può lecitamente supporre che le donne abbiano trasmesso le prime forme di cultura, tra cui il linguaggio. Inoltre, nelle società preistoriche patrilocali, si può pensare che esse, spostandosi da un clan all’altro, abbiano favorito gli scambi dei saperi e delle pratiche” (traduzione mia). Appare verosimile che la cura dei piccoli fosse assunta a livello collettivo e che non esistesse una divisione sessuale dei ruoli, vale a dire che, in modalità ben più eque e paritarie di quanto non accada oggi, le donne prendessero parte alla caccia e alle marce, e gli uomini alla preparazione del cibo e alla cura degli infanti.

Inevitabile a questo punto è una critica sofferta e consapevole a Simone de Beauvoir che, senza appoggiarsi su dati scientifici, nella parte del Secondo Sesso (1949) dedicata alla preistoria tratteggia l’alienazione femminile – dando per scontato, secondo le logiche tristemente note del determinismo biologico, il confinamento a ruoli subordinati, materni e di cura – e ne riconferma la conseguente svalutazione dei compiti, con la corrispondente, asimmetrica, onnipervasiva valorizzazione di quelli maschili. L’autrice della bibbia del femminismo, dunque, basandosi sugli studi che aveva a disposizione, ha involontariamente avallato e veicolato la visione androcentrica degli studiosi ottocenteschi, in cui le donne erano pressocché assenti. Alcuni (o forse molti) saranno portati a vedere in questi assunti una posizione partigiana, settoriale, provocatoria. Ma non è proprio così. È invece ormai giunto il momento di ribaltare l’ideologia denigratoria che abbiamo ereditato dall’Ottocento, nata in un contesto intellettuale, economico e politico in cui le donne non assumevano alcun ruolo di rilievo, e che ha saputo elaborarne il corrispondente culturale: quel mito della “natura femminile” originaria, che ancora oggi è così radicato da apparire inalterabile e dato per sempre. Alla luce dei ritrovamenti e dei progressi scientifici, le società preistoriche appaiono ben più complesse e diversificate di quanto non siamo abituati a pensare. Non più storia delle donne, allora, ma storia con la esse maiuscola che comprenda in sé donne e uomini senza dover fare distinzioni. Ed è finalmente giunta l’ora di considerare, studiare ed insegnare anche una preistoria differente.

Bibliografia

  • Marylène Patou-Mathis, L’homme préhistorique est aussi une femme, Allary Editions, 2020.
  • Simone de Beauvoir, Il secondo sesso (1949), Il Saggiatore, 1961.

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